Il poema dei monti naviganti

IL VIAGGIO

Ero partito per fuggire dal mondo, e invece ho finito per trovare un mondo: a sorpresa, il viaggio è diventato epifania di un’Italia vitale e segreta. Ne ho scritto con rabbia e meraviglia. Meraviglia per la fiabesca bellezza del paesaggio umano e naturale; rabbia per il potere che lo ignora.

Come ogni vascello nel mare grosso, la montagna può essere un insopportabile incubatoio di faide, invidie e chiusure. Ma può anche essere il perfetto luogo rifugio di uomini straordinari, gente capace di opporsi all’insensata monocultura del mondo contemporaneo. Paolo Rumiz

NOTE DI REGIA

Il Poema dei Monti Naviganti nasce da una bella intuizione di Roberta Biagiarelli che ho subito condiviso: il meraviglioso, attento, curioso e intenso percorso fisico e verbale dei viaggi, degli incontri, delle osservazioni, degli articoli e del libro di Paolo Rumiz poteva ancora trovare altre, ulteriori e prospettiche dimensioni, quella del racconto orale e quella di una sintesi scenica che ricreasse, davanti agli spettatori e nelle parole e nei corpi vivi degli attori, quelle migliaia e migliaia di chilometri di paesaggio popolato di figure, compiuti ed elaborati nella parola scritta, da celebrarsi ora come in un grande e giocoso poema epico dei nostri giorni.

In scena due attori, Roberta Biagiarelli e Sandro Fabiani, raccontano, interpretano e interagiscono, rappresentando due diversi approcci, almeno in partenza e a volte in alternanza a seconda delle circostanze: coinvolgimento e presa di distanza sdoppiano il personaggio originale dello scrittore e giornalista, trasformandolo per una parte in una scrittrice e giornalista ideatrice del viaggio e per l’altra in un fotografo, “imbarcato” nell’avventura, due atteggiamenti che come luce e ombra creano o rivelano rilievi, contrasti o addolcimenti, rispetto alla natura del paesaggio di montagna, alle strade esaltate dalle curve, e agli incontri, alle modalità e alle aspettative.

Da quando ho cominciato, ho sempre visto il lavoro del regista come quello di colui che traccia delle mappe più o meno segrete, più o meno invisibili nello spazio della scena.
Mi piace ritrovare ancor di più e svelare in questa occasione questa mia propensione a costruire o ricostruire dei percorsi da abitare e attraversare, quasi fossero delle cacce al tesoro visive e sonore da organizzare prima di tutto per gli attori e con gli altri collaboratori artistici durante le prove, e per gli spettatori una volta che i “Monti Naviganti” cominceranno a muoversi.  Alessandro Marinuzzi

Quando il cordone ombelicale della bambina si staccherà mettilo per otto giorni appoggiato su una pianta di biancospino, esponilo alle intemperie, lascialo seccare e chiudilo in un pezzo di carta, poi avvolgilo in un panno di lino e riponilo in un cassetto. La bambina da grande avrà fortuna, viaggerà e potrà fare un lavoro legato alle parole…
Potrebbe essere l’inizio di una fiaba e invece queste sono le mie radici. Questa usanza è legata al mondo delle tradizioni contadine dei miei nonni. Mia madre, quando il mio ombelico cadde, ha diligentemente eseguito tutta l’operazione. Non so se è per via del destino del mio ombelico, fatto sta che viaggiare ho viaggiato, da piccola dicevo che volevo fare la giornalista e sono finita a fare l’attrice.
Con Paolo Rumiz ci siamo incontrati su strade balcaniche, e il mio Appennino assomiglia molto ai Balcani. Sono una donna dell’Appennino d’Oriente, una montanara di mare per dirla con Rumiz.
Il libro “La leggenda dei monti naviganti” e i mondi esplorati da Rumiz mi sono subito piaciuti, mi sono sentita appartenere a quel popolo di giardinieri rimasti a bordo dell’arca. La sua scrittura è stata l’apertura di uno scrigno, lo svelarsi si una materia di lavoro che risuona, l’occasione di approfondire uno sguardo.
Ci sono mestieri che si somigliano, vivono ed echeggiano per affinità, si alimentano a distanza arricchendosi reciprocamente. Mi piace pensare che un giornalista scrittore quale è Paolo Rumiz fatica, suda, mangia polvere, macina chilometri, osserva, annota per poi depositare la scrittura nelle pagine di un libro: la vita, le persone incontrate, le storie raccolte. A noi attori spetta il compito e il piacere di staccare le parole dalle pagine di carta per restituire loro gambe, corpi, voci, fisionomie specifiche.
Se il vizio di Rumiz è quello di imparare a memoria carte geografiche, noi attori abbiamo la pretesa di farle parlare, nell’ostinata intenzione di salvare questa nazione dalla morte dei luoghi, per riuscire a raccontare con stupore e meraviglia ciò che una volta trovato resta prezioso e perdura. Roberta Biagiarelli

INFO & CONTATTI www.babelia.org

 

IL POEMA DEI MONTI NAVIGANTI

un’idea di Roberta Biagiarelli
dal libro “La leggenda dei monti naviganti” di Paolo Rumiz
edito da Giangiacomo Feltrinelli Editore
con Roberta Biagiarelli e Sandro Fabiani
regia Alessandro Marinuzzi
consulenza drammaturgica Francesco Niccolini
scene e costumi Manuela Gasperoni
musiche Mario Mariani
luci Giovanni Garbo
produzione Regione Piemonte, Inteatro e Babelia&C.
con il sostegno di UNCEM, Unione Nazionale delle Comunità e degli Enti Montani
con la collaborazione di CSS Teatro Stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia, La Corte Ospitale di Rubiera (RE) e Echidna – FILI, Salzano (VE)

Con “La leggenda dei monti naviganti” Paolo Rumiz ha vinto la prima edizione del premio GrinzaneMontagna,
il Premio Stresa Narrativa 2007, il Premio Chatwin 2007 sezione “Viaggi di Carta” e il Premio Città di Vigevano 2007

IL VIAGGIO

Ero partito per fuggire dal mondo, e invece ho finito per trovare un mondo: a sorpresa, il viaggio è diventato epifania di un’Italia vitale e segreta. Ne ho scritto con rabbia e meraviglia. Meraviglia per la fiabesca bellezza del paesaggio umano e naturale; rabbia per il potere che lo ignora.

Come ogni vascello nel mare grosso, la montagna può essere un insopportabile incubatoio di faide, invidie e chiusure. Ma può anche essere il perfetto luogo rifugio di uomini straordinari, gente capace di opporsi all’insensata monocultura del mondo contemporaneo. Paolo Rumiz

NOTE DI REGIA

Il Poema dei Monti Naviganti nasce da una bella intuizione di Roberta Biagiarelli che ho subito condiviso: il meraviglioso, attento, curioso e intenso percorso fisico e verbale dei viaggi, degli incontri, delle osservazioni, degli articoli e del libro di Paolo Rumiz poteva ancora trovare altre, ulteriori e prospettiche dimensioni, quella del racconto orale e quella di una sintesi scenica che ricreasse, davanti agli spettatori e nelle parole e nei corpi vivi degli attori, quelle migliaia e migliaia di chilometri di paesaggio popolato di figure, compiuti ed elaborati nella parola scritta, da celebrarsi ora come in un grande e giocoso poema epico dei nostri giorni.

In scena due attori, Roberta Biagiarelli e Sandro Fabiani, raccontano, interpretano e interagiscono, rappresentando due diversi approcci, almeno in partenza e a volte in alternanza a seconda delle circostanze: coinvolgimento e presa di distanza sdoppiano il personaggio originale dello scrittore e giornalista, trasformandolo per una parte in una scrittrice e giornalista ideatrice del viaggio e per l’altra in un fotografo, “imbarcato” nell’avventura, due atteggiamenti che come luce e ombra creano o rivelano rilievi, contrasti o addolcimenti, rispetto alla natura del paesaggio di montagna, alle strade esaltate dalle curve, e agli incontri, alle modalità e alle aspettative.

Da quando ho cominciato, ho sempre visto il lavoro del regista come quello di colui che traccia delle mappe più o meno segrete, più o meno invisibili nello spazio della scena.
Mi piace ritrovare ancor di più e svelare in questa occasione questa mia propensione a costruire o ricostruire dei percorsi da abitare e attraversare, quasi fossero delle cacce al tesoro visive e sonore da organizzare prima di tutto per gli attori e con gli altri collaboratori artistici durante le prove, e per gli spettatori una volta che i “Monti Naviganti” cominceranno a muoversi. Alessandro Marinuzzi

Quando il cordone ombelicale della bambina si staccherà mettilo per otto giorni appoggiato su una pianta di biancospino, esponilo alle intemperie, lascialo seccare e chiudilo in un pezzo di carta, poi avvolgilo in un panno di lino e riponilo in un cassetto. La bambina da grande avrà fortuna, viaggerà e potrà fare un lavoro legato alle parole…
Potrebbe essere l’inizio di una fiaba e invece queste sono le mie radici. Questa usanza è legata al mondo delle tradizioni contadine dei miei nonni. Mia madre, quando il mio ombelico cadde, ha diligentemente eseguito tutta l’operazione. Non so se è per via del destino del mio ombelico, fatto sta che viaggiare ho viaggiato, da piccola dicevo che volevo fare la giornalista e sono finita a fare l’attrice.
Con Paolo Rumiz ci siamo incontrati su strade balcaniche, e il mio Appennino assomiglia molto ai Balcani. Sono una donna dell’Appennino d’Oriente, una montanara di mare per dirla con Rumiz.
Il libro “La leggenda dei monti naviganti” e i mondi esplorati da Rumiz mi sono subito piaciuti, mi sono sentita appartenere a quel popolo di giardinieri rimasti a bordo dell’arca. La sua scrittura è stata l’apertura di uno scrigno, lo svelarsi si una materia di lavoro che risuona, l’occasione di approfondire uno sguardo.
Ci sono mestieri che si somigliano, vivono ed echeggiano per affinità, si alimentano a distanza arricchendosi reciprocamente. Mi piace pensare che un giornalista scrittore quale è Paolo Rumiz fatica, suda, mangia polvere, macina chilometri, osserva, annota per poi depositare la scrittura nelle pagine di un libro: la vita, le persone incontrate, le storie raccolte. A noi attori spetta il compito e il piacere di staccare le parole dalle pagine di carta per restituire loro gambe, corpi, voci, fisionomie specifiche.
Se il vizio di Rumiz è quello di imparare a memoria carte geografiche, noi attori abbiamo la pretesa di farle parlare, nell’ostinata intenzione di salvare questa nazione dalla morte dei luoghi, per riuscire a raccontare con stupore e meraviglia ciò che una volta trovato resta prezioso e perdura. Roberta Biagiarelli

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IL POEMA DEI MONTI NAVIGANTI

un’idea di Roberta Biagiarelli
dal libro “La leggenda dei monti naviganti” di Paolo Rumiz
edito da Giangiacomo Feltrinelli Editore
con Roberta Biagiarelli e Sandro Fabiani
regia Alessandro Marinuzzi
consulenza drammaturgica Francesco Niccolini
scene e costumi Manuela Gasperoni
musiche Mario Mariani
luci Giovanni Garbo
produzione Regione Piemonte, Inteatro e Babelia&C.
con il sostegno di UNCEM, Unione Nazionale delle Comunità e degli Enti Montani
con la collaborazione di CSS Teatro Stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia, La Corte Ospitale di Rubiera (RE) e Echidna – FILI, Salzano (VE)

Con “La leggenda dei monti naviganti” Paolo Rumiz ha vinto la prima edizione del premio GrinzaneMontagna,
il Premio Stresa Narrativa 2007, il Premio Chatwin 2007 sezione “Viaggi di Carta” e il Premio Città di Vigevano 2007

Incantadora. Cucina e memoria di una filibustiera

La casa volante dove si muove l’Incantadora è un luogo magico, un po’ gitano e un po’ stravagante…
è ovviamente una stanza della casa da lei abitata.
Un posto arredato con teli colorati, lampade vecchio stile, oggetti d’altri tempi che provengono da solai di nonne strampalate e poetesse.

Sui tavoli qualche candela profumata, spezie, cioccolata, frutta e verdura fresca, insieme a piccole caramelline e altri oggettini pescati in chissà in quale fiera, in chissà quale parte del mondo.
E’ una sorta di bric à brac, un ammasso d’oggetti diversi usati, ammassati gli uni sugli altri, con libri sparsi un po’ ovunque, sui ripiani, a terra, chincaglieria varia dietro le tende fruscianti di foglie e campanellini.

Gli ospiti vanno per ascoltare le storie della padrona di casa, i suoi racconti che si muovono tra l’appetito e l’amore, là dove i confini sono così labili da confondersi completamente, per raccogliere confidenze tra la cucina e il salotto: bocconi cucinati come fossero tratti dalla letteratura internazionale, amalgamati in gustose ricette, pezzi di storie serviti come portate tra lo svaporare dei sensi.

Sarà l’Incantadora a trasportare gli ospiti nel fascino di diverse culture: tra i profumi delle spezie, le ricette arzigogolate e il dipanarsi di biografie di donne staordinarie e passionarie.
La stanza dove si svolge questa magica rappresentazione/cena è il posto che tutti noi vorremmo avere nella nostra casa: un luogo pieno di colori e profumi, dove sedersi e lasciare che qualcuno si occupi di noi con piccoli gesti di ospitalità e con l’incanto di qualcuno che sa raccontare.

I brani sono liberamente tratti da:
Donne dagli occhi grandi – Angeles Mastretta; Puerto libre – Angeles Mastretta; La cucina di Bahia – Jorge Amado; La cucina della filibusta – Melani Le Bris; La cuoca di Buenaventura Durruti – Anonimo; Dolce come il cioccolato – Laura Esquivel; Le relazioni culinarie – Andreas Staikos; Cuochi si diventa – Allan Bay; Ricette immorali – Manuel Montalban; La maga delle spezie – Chiara Banerjee Divakaruni.

Chef-toi di Davide Berchiatti:
Gazpacho leggero con tortillas
Carpaccio di ananas al rosmarino con spuma di caprino alle erbe
Tortino di miglio all’origano con quenelle di pere
Bignè con mousse di melanzane alla menta
Cannolo con ricotta alla siciliana con salsina rossa alla cannella
Acqua e vino bianco siciliano

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INCANTADORA
Cucina e memorie di una filibustiera

un progetto di Teatro Domestico
di e con Roberta Biagiarelli nel ruolo di Incantadora
e la collaborazione di Lucia Biagiarelli nel ruolo di Dora
collaborazione Sandro Fabiani
scenografia e allestimento
Lucio Diana, Claudia Losi con la collaborazione di AttrazioniBiagiarelli
cuoco Davide Berchiatti – catering Chef-toi
suggestioni luminose di Giovanni Garbo
produzione Inteatro – Babelia & C

La casa volante dove si muove l’Incantadora è un luogo magico, un po’ gitano e un po’ stravagante…
è ovviamente una stanza della casa da lei abitata.
Un posto arredato con teli colorati, lampade vecchio stile, oggetti d’altri tempi che provengono da solai di nonne strampalate e poetesse.

Sui tavoli qualche candela profumata, spezie, cioccolata, frutta e verdura fresca, insieme a piccole caramelline e altri oggettini pescati in chissà in quale fiera, in chissà quale parte del mondo.
E’ una sorta di bric à brac, un ammasso d’oggetti diversi usati, ammassati gli uni sugli altri, con libri sparsi un po’ ovunque, sui ripiani, a terra, chincaglieria varia dietro le tende fruscianti di foglie e campanellini.

Gli ospiti vanno per ascoltare le storie della padrona di casa, i suoi racconti che si muovono tra l’appetito e l’amore, là dove i confini sono così labili da confondersi completamente, per raccogliere confidenze tra la cucina e il salotto: bocconi cucinati come fossero tratti dalla letteratura internazionale, amalgamati in gustose ricette, pezzi di storie serviti come portate tra lo svaporare dei sensi.

Sarà l’Incantadora a trasportare gli ospiti nel fascino di diverse culture: tra i profumi delle spezie, le ricette arzigogolate e il dipanarsi di biografie di donne staordinarie e passionarie.
La stanza dove si svolge questa magica rappresentazione/cena è il posto che tutti noi vorremmo avere nella nostra casa: un luogo pieno di colori e profumi, dove sedersi e lasciare che qualcuno si occupi di noi con piccoli gesti di ospitalità e con l’incanto di qualcuno che sa raccontare.

I brani sono liberamente tratti da:
Donne dagli occhi grandi – Angeles Mastretta; Puerto libre – Angeles Mastretta; La cucina di Bahia – Jorge Amado; La cucina della filibusta – Melani Le Bris; La cuoca di Buenaventura Durruti – Anonimo; Dolce come il cioccolato – Laura Esquivel; Le relazioni culinarie – Andreas Staikos; Cuochi si diventa – Allan Bay; Ricette immorali – Manuel Montalban; La maga delle spezie – Chiara Banerjee Divakaruni.

Chef-toi di Davide Berchiatti:
Gazpacho leggero con tortillas
Carpaccio di ananas al rosmarino con spuma di caprino alle erbe
Tortino di miglio all’origano con quenelle di pere
Bignè con mousse di melanzane alla menta
Cannolo con ricotta alla siciliana con salsina rossa alla cannella
Acqua e vino bianco siciliano

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INCANTADORA
Cucina e memorie di una filibustiera

un progetto di Teatro Domestico
di e con Roberta Biagiarelli nel ruolo di Incantadora
e la collaborazione di Lucia Biagiarelli nel ruolo di Dora
collaborazione Sandro Fabiani
scenografia e allestimento
Lucio Diana, Claudia Losi con la collaborazione di AttrazioniBiagiarelli
cuoco Davide Berchiatti – catering Chef-toi
suggestioni luminose di Giovanni Garbo
produzione Inteatro – Babelia & C

Il riscatto

Sopra una scacchiera fatta di oscuri interessi politici, quattro Carcierieri – Dennis, Ivan, Lara e Gelio – devono sapersi difendere coraggiosamente dalle manovre della Sequestrata per non essere privati della propria libertà.


IL RISCATTO

scritto e diretto da_Giampiero Rappa

con_Eva Cambiale, Andrea Di Casa, Filippo Dini, Sergio Grossini, Emanuela Guaiana, Mauro Pescio

scene e costumi_Laura Benzi

luci_Giovancosimo De Vittorio

assistenti alla regia_Sergio Grossini, Emanuela Guaiana

 

 

 

Take me away

La storia ironica e nevrotica di una famiglia atipica.

“Take me away” è un microcosmo di tensioni, cattiverie e sorprese nella vita di una famiglia qualunque. Con il pretesto di prepararsi ad incontrare insieme la madre gravemente ammalata, si radunano quattro uomini, tre fratelli e un padre le cui vite sono segnate da profonde diversità esistenziali. Ad attenderli, sarà invece il bilancio paradossale delle loro perversioni.

 

TAKE ME AWAY

 

scena Julienne Tognocchi

costumi Annalisa Recchioni

aiuto regia Andrea Di Casa, Giulia Valli

assistenti regia Sergio Grossini, Mauro Pescio

 

 

 

  

 

 

 

IL TEATRO DELLA BIOSPHERA | Energia / Utopia

Fantasia e creatività per riflettere sugli sprechi energetici.
Energia / Utopia è la terza azione teatrale ad essere ospitata nel Teatro della Biosphera, una semisfera trasparente capace di contenere fino a 40 spettatori che, con l’ausilio di tecnologie audio e video, crea una sorta di micromondo: una serra ma anche un teatro, ambientazione ideale per affrontare le tematiche ambientali.

“Quale traccia vogliamo lasciare su questo pianeta?
Io vorrei lasciare un’impronta leggera….”

Il teatro della Biosphera ha ospitato la questione della biodiversità La pelle del Pianeta e delle risorse idriche Biosphera d’Acqua; nel suo terzo capitolo, Energia / Utopia, il Teatro della Biosphera parla di energia. Energia prodotta – da centrali termiche, idroelettriche, nucleari, biomasse, eoliche, fotovoltaiche – ed energia consumata, da veicoli, case, fabbriche, elettrodomestici, per l’illuminazione e per il divertimento.
Il pubblico viene coinvolto attraverso la progettazione di invenzioni fantastiche a basso impatto ambientale: l’automobile ad aria compressa, il frullatore a dinamo, il televisore fotovoltaico in tessuto a cristalli liquidi, da mettere in valigia come un asciugamano. Il tema dell’energia viene giocato con sculture, oggetti ed elementi simbolici, in grado di porre l’attenzione sulle variabili possibili che riguardano ciascuno di noi in rapporto alla comunità e alla proprie scelte.
Al termine dell’azione teatrale gli spettatori potranno inoltre calcolare la propria impronta ecologica.

Esigenze tecniche dello spettacolo:
Il Teatro della Biosphera può contenere circa 40 spettatori per ogni replica; spazio necessario 12 m larghezza, 12 m profondità e 6 m di altezza, oscurabile ed isolato acusticamente (altri accorgimenti tecnici verranno dettagliati al momento del contatto).

L’impronta ecologica:
il nostro peso sulla Terra

Siamo abituati a considerare la Terra come una miniera a cui attingere per i nostri bisogni. Prendiamo cibo, acqua, minerali, energia che sono il suo capitale natura, e lasciamo rifiuti, scorie, acque putride ed emissioni industriali da traffico e riscaldamento: questa è l’impronta che lasciamo sulla Terra al nostro passaggio.

Per tenere sotto controllo il progresso e le sue conseguenza, in vista del raggiungimento di un’economia realmente “sostenibile” rispetto alle capacità rigenerative ed assimilative dei sistemi naturali, è necessario essere in grado di definire e, ancor meglio, di misurare i vari aspetti della sostenibilità: i limiti che ci impone la natura, il nostro impatto su di essa e la nostra “qualità” di vita.
L’impronta ecologica è un metodo semplice e divertente per misurare quanta parte di Terra serve a ciascuno di noi per soddisfare i propri bisogni e smaltire i propri rifiuti. Elaborato a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta dall’ecologo William Rees (British Columbia University del Canada) e dai suoi collaboratori, il metodo è stato sottoposto a continui affinamenti per migliorarne l’efficacia. Il suo obiettivo è di capovolgere la visione tradizionale dell’ecologia: invece di chiedersi “quante persone può sopportare la Terra?” il metodo dell’impronta si chiede “quanta terra ciascuna persona richiede per essere “supportata”?” Diventa cruciale pertanto non solo valutare il numero delle persone ma anche le tipologie di produzione, le tecnologie utilizzate e i modelli di consumo.

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Imagination and creativity to reflect on energy waste

Energia / Utopia is the third theatrical action to be housed in the Theatre Biosphera, a transparent globe that can hold up to 40 spectators who, with the help of audio and video technology, creates a sort of microcosm: a greenhouse but also a theater, an ideal setting to face the environmental issues.

“What kind of traces do we want  to leave on this planet?

I would like to leave a light footprint …. “

The Biosphera Theater has hosted the issue of biodiversity with the show La pelle del Pianeta (The skin of the planet) and the water resources with Biosphera d’Acqua (Water Biosphera); in his third chapter, Energy / Utopia, the Theatre of Biosphera talks about energy. Energy produced – from power stations, hydroelectric, nuclear, biomass, wind, solar – and energy consumed by vehicles, houses, factories, appliances, for lighting and entertainment.

The public is involved through the design of fantastic inventions with low environmental impact: the air car, the blender dynamo, the photovoltaic LCD TV, that can be packed like a towel. The issue of energy is played with sculptures, objects and symbolic elements, to focus attention on the possible variables that affect each of us in relation to community and their choices.

At the end of the performance audience will be able to calculate its own ecological footprint.

Technical requirements:

The Biosphera Theater can hold about 40 spectators for each replica; necessary space 12 m wide, 12 m deep and 6 m high, darkened and soundproof (other technical will be detailed at the time of contact).

THE ECOLOGICAL FOOTPRINT:

OUR WEIGHT ON EARTH

We used to consider the Earth as a mine from which to draw for our needs. We take food, water, minerals, energy which are its natural capital, and we leave waste, slag, putrid water and industrial emissions from traffic and heating: this is the footprint we leave on Earth as we passed.

In order to monitor progress and its result, in view of the achievement of a really “sustainable” economy for the planet, you must be able to define and, even better, measure the various aspects of sustainability: the limits requires us to nature, our impact on it and our “quality” of life.

The ecological footprint is an easy and fun way to measure how much space is used on Earth from each of us to meet our needs and dispose of their waste. Developed at riding between the eighties and nineties by the ecologist William Rees (University of British Columbia in Canada) and his collaborators, the method has been subjected to continuous updates to improve its effectiveness. Its objective is to overturn the traditional view of ecology: instead of asking “how many people the Earth can support?” the ecological footprint method asks “how much land each person requires to be “supported”?” It becomes therefore crucial not only assess the number of people but also the types of production, the technologies used and consumption patterns.

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L’essere umano perfetto

lessereumanoperfettoL’essere umano perfetto è una performance partecipativa che trae ispirazione dal film capolavoro di Jørgen Leth “The perfect human” (1967).

lessereumanoperfettoThe perfect human being is a participatory performance that draws inspiration from the film of Jørgen Leth “The Perfect Human” (1967).

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Controllo remoto [Orthographe]

Un’evocazione di panorami e scenari bellici, dai primi ‘800 ad oggi.
Il titolo “Controllo remoto” rimanda ai sistemi di supervisione che permettono di monitorare e gestire, in tempo reale, qualunque apparecchiatura, laddove dimensione della rete di controllo remoto e l’acquisizione di dati hanno un loro preciso impiego militare.

Il nuovo lavoro della compagnia Orthographe interroga la “fede percettiva” attraverso l’immaginario bellico, a partire dalle fotografie di guerra della Secessione americana, fino alle tecniche di ripresa e videocontrollo dei campi di battaglia, sviluppatesi durante la I e la II Guerra mondiale, e le strategie filmiche attuali impiegate nell’uso intensivo delle ricognizioni aeree.

un progetto di Orthographe – soggetto e regia Alessandro Panzavolta – ambientazioni sonore Lorenzo Senni – consulente alla fotografia Cesare Fabbri – elettronica tecnica e scenografie Marco Amadori – software Michele Verità – tecnici in scena Marco Amadori, Angela Longo – Produzione InteatroPROD 09, Productiehuis Rotterdam / Rotterdamse schouwburg, Orthographe – con il supporto di ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione – grazie a Library of Congress, Washington, D.C.

Controllo remoto per una logi(sti)ca della percezione
di Piersandra Di Matteo

Non c’è un grado zero dello sguardo (né l’immagine è allo stato bruto). Non c’è un documentario puro sul quale verrebbe a innestarsi in un secondo tempo una lettura simbolizzante. Ogni documento visivo è immediatamente finzione. R. Debray, Vita e Morte dell’Immagine. Una Storia dello Sguardo in Occidente

I media ci danno sempre il fatto, ciò che stato (o pretende di esserlo), ma senza la sua possibilità, senza la sua potenza; ci danno quindi un fatto in rapporto al quale siamo assolutamente impotenti. I media amano il cittadino indignato, ma impotente. G. Agamben, Il cinema di Guy Debord
Controllo remoto, il nuovo spettacolo di Orthographe, sembra muovere in una diversa direzione dai precedenti lavori per camera ottica.

È dismesso il dispositivo ottico della camera oscura. È eliminata la fruizione per posti limitati. È assente la figura del performer. Eppure anche Controllo remoto è una macchina di visione che interroga la “fede percettiva”, e lo fa attraverso l’immaginario della guerra.
Muove i suoi passi dalle fotografie di guerra della Secessione americana, fino alle tecniche di ripresa e videocontrollo dei campi di battaglia, sviluppatesi durante la prima e la seconda guerra mondiale, e le strategie filmiche attuali impiegate nell’uso intensivo delle ricognizioni aeree.

Il titolo del lavoro rimanda, non a caso, ai sistemi di supervisione che permettono di monitorare e gestire, in tempo reale, qualunque apparecchiatura, laddove dimensione della rete di controllo remoto e l’acquisizione di dati hanno un loro preciso impiego militare (telecamera termica, infrarossi, missili di precisione che utilizzano le videoriprese). Controllo remoto mette in moto delle vere e proprie dinamografie belliche che iniziano con la successione regolare di immagini fotografiche proiettate in dittico che ritraggono ambienti, scene di distruzione e i protagonisti della guerra civile americana (tratte dalla Library of Congress, Collection, The Selected Civil War Photographs, 1861-1865). Le immagini, scandite da un andamento regolare, sembrano via via prendere respiro attraverso il processo di anamorfosi prodotto dal movimento fluttuante dello schermo in cui sono proiettate. Il montaggio delle sequenze ha un ritmo tale da conferire alle immagini quel fraseggio della storia di cui parla Jacques Rancière a proposito del cinema di Godard.

Il punto di vista dal quale la guerra si mostra è quello del dispositivo di sorveglianza-distruzione, previsione-distruzione: in queste riprese individuare (un bersaglio) significa distruggere l’obiettivo mirato. Controllo remoto fa propri gli strumenti di mira: l’oculare della macchina da presa imbarcata a bordo degli aeroplani pre-figura la derealizzazione dello scontro militare in cui l’immagine ha la meglio sull’oggetto, il tempo sullo spazio, in una guerra industriale dove la rappresentazione degli eventi domina la presentazione dei fatti. Il set dello spettacolo è tutto in continuo movimento, investe tutti i volumi dello spazio, primi piani, il soffitto, lo sfondo. Supporti mobili di proiezioni conferiscono alla funzione del “vedere” un che di simulazione.

Immagini e audio di repertorio, tecniche cinematografiche impiegate nei conflitti del XX secolo si sovrappongono ai meccanismi narrativi dei war-movie hollywoodiani fino ad un effetto prismatico che evoca la Guerra dei Mondi, paesaggi distopici che guardano alle science-fiction. In definitiva, in Controllo remoto non possiamo non riconoscere la stessa tensione, le stesse domande che animavano le immagini dei primi lavori, caricate questa volta dell’era della simulazione, della rappresentazione virtuale del mondo, della sovraesposizione…..

Controllo remoto parla della guerra per interrogare lo sguardo, e con esso la storia (dell’immagine) collusa con le ideologie del potere e quindi con la politica.

Se per Paul Virilio non vi è guerra senza rappresentazione, né armi sofisticate senza mistificazione psicologica, ecco che le armi non sono solo strumenti di distruzione, ma anche strumenti di percezione dal momento che guerra, cinema e informazione sono ormai virtualmente indistinguibili.

L’arma del teatro ha sostituito il teatro delle operazioni. Controllo remoto esibisce il funzionamento intimo, tecnico e ideologico delle immagini (di guerra) che allarga lo sguardo sulle proprie possibilità, come se spettasse alle immagini il potere specifico di rendere visibile ciò che la storia genera al di là di se stessa.

Le immagini e il loro ritmo bellico interrogano allora il destino, nel senso freudiano di “destino” delle pulsioni. Non è forse il destino ciò che la storia genera al di là di se stessa, ciò che lo vincola a un passato di cui non ha memoria e a un futuro che è a venire?

 

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“Controllo remoto” is vision machinery questioning the “perceptive faith” through the war imagery. War is shown from the point of view of overseeing-destruction and forecast-destruction device: in those shoots, to focus a target means to destroy it.

Controllo remoto owns targeting tools: the camera’s objective on the plane forecasts the unreal image of the army clash in which the image wins on the object, time on space, in an industrial war where the representation of the events dominates the representation of the facts.

Controllo Remoto (Wars)

a project by Orthographe – concept and direction Alessandro Panzavolta – sound environment Lorenzo Senni – photography consultant Cesare Fabbri – electronic technique and set design Marco Amadori – software Michele Verità – on stage Marco Amadori, Angela Longo – Production InteatroPROD 09, Productiehuis Rotterdam / Rotterdamse Schouwburg, Orthographe – with the support of ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione – thanks to Library of Congress, Washington, D.C.

Remote Control for the logi(sti)cs of perception

by Piersandra Di Matteo

The stage devices conceived by Orthographe are complex analogical machines able to produce and rouse an images poiesis with an artificial set, which employs the optical properties of lenses, light and darkness.

The mechanism’s basis is the optical room device, used in the past to create the pictorial image and starting point for the camera invention. This device was connected to a pre-scientific universe leading towards the representation of the dead people and towards the mystical practices of various initiation cults from the 1600 and 1700. The feature of this archaic technology and one of the reasons why it appears so magnetic to the eye of a contemporary audience, is that the machinery is not visible, the audience cannot see it. The images in front of the audience’s eyes are colluded with a psychic length of time; they have aspects in common with the dream-like and the waking dimension.

Orthographe de la physionomie en mouvement, 2005, and the following Tentativi di volo (Flying attempts), 2007, come both from the research on a device with a bright room with actors and lights, which no one can see because the audience sits in the dark room. It is a device, which leads to a hybrid language between painting, photography and cinema but all deepened in theatre. The image, with its syncopations, jumps, struggles and repetitions, takes and loses shape in front of the audience and it is the result of real actions which take place meanwhile, staged by non visible actors.

If in Orthographe de la physionomie en mouvement, the estranging effect is given by noises coming from the back of the audience, what strikes more the attention in the device used for Tentativi di volo (Flying attempts) is the ability to break the fluctuating pure optical whole of the images to gather around a tactile basic element. The work constantly breaks the associations’ chains of the gaze to open gaps and accelerations totally conniving with the sound sphere. The sound textile is inseparable from the image. Orthographe de la physionomie en mouvement leads to a crush between painting, photography and cinema, the body presence becomes latent and somehow illusory and the silence is suggested by the absence of the narrative progression and a minimal dramatic gesture. In the work Tentativi di volo (Flying attempts), the pictorial and slightly sculptural treatment of the image becomes radicalized (the draperies gain a plastic consistence, which almost recalls the baroque). The image, thought, flakes off, vaporizes; it generates itself through shapeless gradients, through passages into stains. Bright halos surround the presences and threaten with ghostly and hallucinatory appearances producing a perceptual disorientation.

Controllo remoto, the new Orthographe work, seems to be moving towards a different direction. There is no more optical device involved. There are no more limited seats. There is no more performer. Yet, even Controllo remoto is a vision machine, which interrogates the “perceptual faith” through the war imaginary. It starts with the American War of Secession pictures and the shooting techniques and video control of contemporary battlefields, from the First and Second World War to the actual aerial reconnaissance. The title of this work reminds us of the supervision systems which monitor and organize, in real time, any equipment where the dimension of the remote control web and the data capture have a clear military use (thermal cameras, infrared, precision missiles which use video shoots). Controllo remoto generates war dynamographies beginning with a series of diptychs showing scenes and characters of the America Civil War (taken from the Library of Congress, Collection, The Selected Civil War Photographs, 1861-1865). The images are marked in time and they seem to start breathing through the anamorphosis process given by the fluctuating movement of the screen where they are projected. The images editing has the rhythm of the history phrasing as Jacques Rancière said about Godard’s work. The war is seen through the surveillance-destruction, estimation-destruction device: in these shootings to locate (a target) means to destroy the target. Controllo remoto uses all the aim equipment: the eyepiece of the camera used on airplanes foreshadows the deconstruction of the battle where the image wins on the object, the time on the space. It is an industrial war where the events representation rules over the facts themselves. The set is constantly changing; the piece takes place all over the stage: front, ceiling and background. The mobile projection supports give to the action of “watching” a feature of simulation. Archive footages and sounds, film techniques used during the XX century conflicts overlap the narrative processes of the Hollywood war movies. They create a prismatic effect, which evokes the War of the Worlds, dystopic landscapes recalling science fiction imaginary. Controllo remoto keeps the same tension, asks the same questions as the previous works, but it comes from the simulation era, from the virtual world, from the overexposure…

Controllo remoto talkes about war to interrogate the gaze and the history (of the image) connected with power ideologies and politics.

If, for Paul Virilio, there is no war without representation, nor sophisticated weapons without psychological distortion, here the weapons are not only destruction devices but also perception ones, because war, cinema and information are almost virtually indiscernible. The theatre weapon replaced the theatre of operations. Controllo remoto shows the intimate, technical and ideological functioning of the images (of the war), which open up the vision on their own possibilities, as if the images were responsible of making visible what the history generates beside itself. The images and their war rhythm question the destiny, in its Freudian meaning of destiny of drives. Isn’t it destiny what the history generates beside itself, what ties it up to a past with no memory and a future, which still has to become?

 

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Tentativi di volo [Orthographe]

20 spettatori all’interno di una camera oscura. Di fronte ai loro occhi, la rappresentazione di un sogno, e del ricordo che lascia al mattino l’esperienza del volo notturno…
Tentativi di volo è la proiezione in tempo reale di ciò che avviene all’esterno: quando nel sogno la carne assume una leggerezza in equilibrio con il peso dell’aria, continuamente minacciato dalla caduta, continuamente trasportato verso l’alto…

Il tema del volo e della sospensione dei corpi attraversa tutta l’opera di Goya, dalle Incisioni fino alle Pitture nere; partendo da queste immagini lo spettacolo persegue un effetto caricaturale, distorto, che esprime una diversa gravità, che si scontra con ogni legge fisica. Servendosi di stimolazioni visive e uditive che manipolano l’attenzione del pubblico, generando un effetto sinestetico in cui il suono scaturisce dalle immagini e in cui la vista è un atto di creazione.

Tentativi di volo è il terzo lavoro di Orthographe, gruppo nato nel 2004 dall’incontro di quattro persone dai percorsi artistici eterogenei attorno al lavoro di ricerca di Alessandro Panzavolta sulla camera ottica, e co-prodotto da Inteatro fin dalla sua formazione. Il nome del gruppo deriva dal loro primo spettacolo Orthographe de la physionomie en mouvement, una creazione per la Biennale di Venezia 2005 diretta da Romeo Castellucci.

Tentativi di volo
regia e camera ottica di Alessandro Panzavolta – con Roberta Galassini, Sara Masotti, Valentina Parmigiani, Angela Longo – datore luci Francesco Antonelli – oggetti di scena Roberta Galassini, Sara Masotti, Francesco Antonelli – suoni Alessandro Panzavolta – fotografie Cesare Fabbri – produzione Orthographe, Inteatro, Spielart Factory – Munich, Rotterdamse Schouwburg, Pumpenhaus Münster – finanziato dalla Fondazione per la Cultura della Germania Federale, con il supporto di Allianz-Kulturstiftung – con il contributo di Movin’up – un ringraziamento speciale a Lorenzo Senni, al Teatro delle Albe e a tutta la squadra tecnica

CONTATTI E DIFFUSIONE
Alessandra Simeoni > a.simeoni [at] inteatro.it

SITO INTERNET
www.orthographe.it

Vedi tutte le produzioni »

20 spettatori all’interno di una camera oscura. Di fronte ai loro occhi, la rappresentazione di un sogno, e del ricordo che lascia al mattino l’esperienza del volo notturno…
Tentativi di volo è la proiezione in tempo reale di ciò che avviene all’esterno: quando nel sogno la carne assume una leggerezza in equilibrio con il peso dell’aria, continuamente minacciato dalla caduta, continuamente trasportato verso l’alto…

Il tema del volo e della sospensione dei corpi attraversa tutta l’opera di Goya, dalle Incisioni fino alle Pitture nere; partendo da queste immagini lo spettacolo persegue un effetto caricaturale, distorto, che esprime una diversa gravità, che si scontra con ogni legge fisica. Servendosi di stimolazioni visive e uditive che manipolano l’attenzione del pubblico, generando un effetto sinestetico in cui il suono scaturisce dalle immagini e in cui la vista è un atto di creazione.

Tentativi di volo è il terzo lavoro di Orthographe, gruppo nato nel 2004 dall’incontro di quattro persone dai percorsi artistici eterogenei attorno al lavoro di ricerca di Alessandro Panzavolta sulla camera ottica, e co-prodotto da Inteatro fin dalla sua formazione. Il nome del gruppo deriva dal loro primo spettacolo Orthographe de la physionomie en mouvement, una creazione per la Biennale di Venezia 2005 diretta da Romeo Castellucci.

Tentativi di volo
regia e camera ottica di Alessandro Panzavolta – con Roberta Galassini, Sara Masotti, Valentina Parmigiani, Angela Longo – datore luci Francesco Antonelli – oggetti di scena Roberta Galassini, Sara Masotti, Francesco Antonelli – suoni Alessandro Panzavolta – fotografie Cesare Fabbri – produzione Orthographe, Inteatro, Spielart Factory – Munich, Rotterdamse Schouwburg, Pumpenhaus Münster – finanziato dalla Fondazione per la Cultura della Germania Federale, con il supporto di Allianz-Kulturstiftung – con il contributo di Movin’up – un ringraziamento speciale a Lorenzo Senni, al Teatro delle Albe e a tutta la squadra tecnica

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Alessandra Simeoni > a.simeoni [at] inteatro.it

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Lev

lev-miniUn uomo apre gli occhi. Si guarda intorno. C’è poca luce, non riesce a capire dove si trova. Attraversa lo spazio, conta i passi, si avvicina a una parete, in cerca di rumori.

lev-miniLev – ultima tappa MUTA IMAGO

coproduzione Inteatro
nell’ambito di Scenari Danza 2.0

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Orthographe de la physionomie en muovement [Orthographe]

Il luogo di origine dell’immagine è uno spazio chiuso, dove la visione viene messa in scena; il linguaggio dello spettacolo condivide con questo luogo la mancanza di parola e la presenza persuasiva dell’immagine pura. Il meccanismo della visione diviene macchina teatrale….

foto di Pietro Castellucci © 2005

Orthographe de la physionomie en mouvement richiama le immagini de la Iconographie photographique de la Salpêtrière, gli album fotografici editi a partire dal 1877 sotto la supervisione del neuropatologo Jean-Martin Charcot.

La documentazione era prodotta nella camera di posa del gabinetto fotografico ospitato nella clinica; i soggetti ritratti negli album sono per lo più figure femminili, internate nel “quartiere delle epilettiche” alla Salpêtrière dove il professor Charcot teneva le sue lezioni dimostrative sull’ipnotismo e la grande hystèrie, dando vita a veri e propri spettacoli-performance con le giovani donne come attrici.

Una galleria di corpi in pose plastiche misurate e riproducibili, queste mute icone presto lasceranno il teatro anatomico della Salpêtrière per prendere posto nei fotogrammi delle prime pellicole cinematografiche.

Il luogo di origine dell’immagine è uno spazio chiuso dove la visione viene messa in scena; il linguaggio dello spettacolo condivide con questo luogo la mancanza di parola e la presenza persuasiva dell’immagine pura.

Il meccanismo della visione diviene macchina teatrale, si assiste alla generazione di immagini in bilico tra la stasi tensoriale e il movimento, tra la possibilità di essere discorso e l’assenza di narrazione, ciò che non è ancora comprensibile è già iconograficamente riconoscibile.

Il silenzio delle immagini che accompagna la visione è interrotto da suoni concreti provenienti dalla camera alle spalle degli spettatori, luogo in cui avviene l’azione teatrale; si crea in questo modo una dissociazione nella percezione delle immagini e dei suoni complementari, suoni che sono generatori delle immagini più che simultanei ad esse. Le immagini di per sé sono mute, ciò che è udibile è il suono della macchina che le genera, una macchina della visione che comprende l’azione teatrale stessa, la contiene ed allo stesso tempo la proietta fuori di sé, generando immagini in ritardo di un infinitesima frazione di secondo rispetto all’istante dell’accadere.

Debutto: 35 Biennale di Venezia, 12-25 settembre 2005, Venezia

Orthographe de la physionomie en mouvement

Spettacolo per camera ottica

soggetto Alessandro Panzavolta, Francesca Amati, Angela Longo, Sabrina Maggiori, Sonia Brunelli – regia e camera ottica Alessandro Panzavoltacon Roberta Galassini, Angela Longo, Sara Masotti, Valentina Parmigiani – tecnico in scena Francesca Pambianco – produzione Orthographe, la Biennale di Venezia, Inteatro – con il sostegno di Regione Marche – Assessorato alla Cultura progetto interregionale “Quattro Regioni al centro della scena” – in collaborazione con Comune di Forlì – Assessorato Politiche Giovanili

CONTATTI E DIFFUSIONE

Alessandra Simeoni > a.simeoni [at] inteatro.it

SITO INTERNET

www.orthographe.itIl luogo di origine dell’immagine è uno spazio chiuso, dove la visione viene messa in scena; il linguaggio dello spettacolo condivide con questo luogo la mancanza di parola e la presenza persuasiva dell’immagine pura. Il meccanismo della visione diviene macchina teatrale….

foto di Pietro Castellucci © 2005

Orthographe de la physionomie en mouvement richiama le immagini de la Iconographie photographique de la Salpêtrière, gli album fotografici editi a partire dal 1877 sotto la supervisione del neuropatologo Jean-Martin Charcot.

La documentazione era prodotta nella camera di posa del gabinetto fotografico ospitato nella clinica; i soggetti ritratti negli album sono per lo più figure femminili, internate nel “quartiere delle epilettiche” alla Salpêtrière dove il professor Charcot teneva le sue lezioni dimostrative sull’ipnotismo e la grande hystèrie, dando vita a veri e propri spettacoli-performance con le giovani donne come attrici.

Una galleria di corpi in pose plastiche misurate e riproducibili, queste mute icone presto lasceranno il teatro anatomico della Salpêtrière per prendere posto nei fotogrammi delle prime pellicole cinematografiche.

Il luogo di origine dell’immagine è uno spazio chiuso dove la visione viene messa in scena; il linguaggio dello spettacolo condivide con questo luogo la mancanza di parola e la presenza persuasiva dell’immagine pura.

Il meccanismo della visione diviene macchina teatrale, si assiste alla generazione di immagini in bilico tra la stasi tensoriale e il movimento, tra la possibilità di essere discorso e l’assenza di narrazione, ciò che non è ancora comprensibile è già iconograficamente riconoscibile.

Il silenzio delle immagini che accompagna la visione è interrotto da suoni concreti provenienti dalla camera alle spalle degli spettatori, luogo in cui avviene l’azione teatrale; si crea in questo modo una dissociazione nella percezione delle immagini e dei suoni complementari, suoni che sono generatori delle immagini più che simultanei ad esse. Le immagini di per sé sono mute, ciò che è udibile è il suono della macchina che le genera, una macchina della visione che comprende l’azione teatrale stessa, la contiene ed allo stesso tempo la proietta fuori di sé, generando immagini in ritardo di un infinitesima frazione di secondo rispetto all’istante dell’accadere.

Debutto: 35 Biennale di Venezia, 12-25 settembre 2005, Venezia

Orthographe de la physionomie en mouvement

Spettacolo per camera ottica

soggetto Alessandro Panzavolta, Francesca Amati, Angela Longo, Sabrina Maggiori, Sonia Brunelli – regia e camera ottica Alessandro Panzavoltacon Roberta Galassini, Angela Longo, Sara Masotti, Valentina Parmigiani – tecnico in scena Francesca Pambianco – produzione Orthographe, la Biennale di Venezia, Inteatro – con il sostegno di Regione Marche – Assessorato alla Cultura progetto interregionale “Quattro Regioni al centro della scena” – in collaborazione con Comune di Forlì – Assessorato Politiche Giovanili

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Alessandra Simeoni > a.simeoni [at] inteatro.it

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